Mulholland Drive – Una chiave blu di lettura

Filippo Guiducci/ Dicembre 11, 2022/ Film, Home/ 0 comments

mulholland drive

Quel fenomenale testa di cazzo di Lynch è stato in grado di prendere una delle parti più odiate nel racconto di una storia, la parte della “dream sequence”, e stirandola per due ore piene, montandoci sopra un mindfuck potentissimo, edulcorandola con tonnellate di capacità cinematografica, è riuscito a tirarci fuori quel film capolavoro del ventunesimo secolo che è “Mulholland Drive”. Un fottuto genio.

Premetto che non è mai eccessivo ribadire come tutto ciò che sto scrivendo lo faccia a mia modesta opinione. Spesso lo ricorderò, a volte me ne dimenticherò, ed è altrettanto possibile che io possa incappare in qualche errore oggettivo di trama, ma è importante chiarire che l’interpretazione dell’intero mare di simbolismo che Lynch ha riversato in questo calderone è il modo in cui personalmente ho deciso di leggere il film. Se al termine della lettura vorrà essere anche il vostro, benvenuti e benvenute a bordo. Altrimenti sarete nel torto e io avrò comunque ragione. Sto scherzando ovviamente, sarebbe totalmente lecito, e se mi farete notare l’errore sarò ben contento di correggermi. Vivere nella menzogna solitamente non mi piace. Chiarito ciò che c’era da chiarire, iniziamo.

Secondo me il film è diviso in due parti chiaramente separate, una parte che dura due ore e che chiameremo “dream sequence” e una che dura quaranta minuti e che chiameremo “real sequence”. Le due storie potrebbero esser raccontate l’una indipendentemente dall’altra per quanto riguarda la mera esecuzione di trama, ma è la congiuntura delle due che conferisce il peso necessario alla seconda per funzionare come conclusione dell’opera come insieme. L’unico collegamento tra le due sequenze sono infatti i personaggi, che hanno ruoli diversi nelle due parti. O meglio, nella prima parte si può parlare di ruoli, in quanto ognuno assume un ruolo assegnatogli da Diane nel proprio sogno, mentre nella seconda parte si tratta di vite vere di persone vere.

Essendo la real sequence lunga solo quaranta minuti, il tempo al suo interno per mostrare tutta la backstory di Diane non è moltissimo, quindi una buona parte ci viene raccontata proprio da lei quando parla con la madre del regista: il concorso di ballo vinto (importantissimo secondo me, poi ci torneremo), la naturale trasformazione in attrice, la zia morta e il trasferimento ad L.A., il provino come ruolo principale in un film e la sconfitta a favore di Camilla, le parti secondarie che da allora quest’ultima le rimedia. Capiamo inoltre che Diane è innamorata di Camilla, sia dall’apparizione in cucina mentre Diane lava i piatti, che dalle fantasie sessuali su loro due, che dalla dream sequence in cui le dichiara esplicitamente il suo amore. Camilla non corrisponde tale sentimento, o non lo corrisponde più, elemento chiaro dalla scena in cui lei chiede che Diane rimanga a vederla provare una scena con bacio, guardandola negli occhi dopo aver baciato il regista. Quando Camilla e il regista comunicano che si sposeranno, dopo una cena in cui viene mostrata tutta la freddezza, la cattiveria e lo snobbismo del jetset losangelino, Diane decide di assoldare un killer per uccidere Camilla. Si incontrano in una tavola calda e qui entra in gioco per la prima volta (temporalmente) la celebre chiave blu. Il killer le dice che la prossima volta che la vedrà, il compito sarà stato portato a termine. Questo conferma che il momento iniziale della real sequence, in cui Diane parla con la vicina di casa che vuole riprendersi le sue cose, avviene in fondo alla linea temporale del film, dato che la chiave è presente sul tavolino. Anche la vicina, uscendo, dice a Diane che due ispettori vogliono farle alcune domande, lasciando intendere che sia stato aperto un caso sulla morte di Camilla (interpretazione personale). Sempre in linea temporale, quindi non seguendo l’ordine di narrazione del film, l’evento successivo è la scena finale del film, con Diane che si uccide non potendo più sopportare una vita del genere.

La dream sequence avviene quindi prima che Diane parli con la vicina, ma dopo che tutte le vicende menzionate sopra sono accadute. Una conferma del fatto che tutta la prima parte dell’opera sia un sogno è data dal legame tra due scene ai capi della dream sequence stessa: da un lato c’è la seconda scena del film, dove si vedono, a fuoco e fuori fuoco per simboleggiare in prima persona la sonnolenza, le stesse lenzuola rosse su cui Diane si sveglierà all’inizio della real sequence, mentre dall’altro c’è la scena successiva all’ingresso della telecamera nella scatola blu, dove il cowboy dice esplicitamente alla ragazza di svegliarsi. La scelta dell’usare il cowboy nella dream sequence è anch’essa di stampo onirico, avendo dato un ruolo nella storyline di Adam e un altro nel proprio risveglio ad un personaggio visto solamente per una manciata di secondi nella real sequence, mentre esce dalla stanza dove si tiene la cena di annuncio del matrimonio. Tuttavia, la realizzazione dell’assunto che la prima sequenza sia tutta un sogno non può che avvenire all’inizio della e durante la real sequence, dopo aver visto la succitata scena del cowboy e aver iniziato a comprendere che in realtà i nomi e i ruoli di cui siamo venuti a conoscenza nella prima parte non siano altro che etichette appiccicate a piacere da Diane. Si inizia a capire quindi che in questa prima sequenza ci sono storie inventate, parti mischiate e critiche al sistema cinematografico che risuonano con la completa esperienza di Diane. La storia di Diane/Betty nella dream sequence è più che positiva, forse troppo, e soprattutto lo è in modo molto favolesco: una ragazza di provincia che arriva a Los Angeles piena di aspettative e desideri, incontra solo buone persone, fa un provino tra persone iper gentili in cui mostra un talento spaventoso, ottiene seduta stante un secondo provino per un altro regista che viene stregato dalla sua bellezza ma con cui non riesce ad interagire, creando quindi aspettativa su una ricerca alla Cenerentola-Principe azzurro, e per non farsi mancare nulla si innamora nel giro di 36 ore di una donna bellissima, che ricambia il sentimento. L’arco narrativo di Diane/Betty nella dream sequence è solo un crescendo, e non potrebbe esser altrimenti dato che la storia la sta creando la stessa Betty, col desiderio interiore di avere ciò che non può afferrare nella vita reale. Come poi scopriremo nella real sequence, la realtà è ben diversa. Anche la storyline del regista Adam, che sembra assolutamente tangenziale a quella di Betty dato che si incontreranno per il tempo di un solo fugace sguardo, è in realtà la giustificazione a cui Betty vuole afferrarsi per il fatto che Camilla è stata scelta al suo posto: le attrici vengono scelte per motivi totalmente altri rispetto alla bravura. In questo caso è stata scomodata addirittura la mafia italiana, perché dovendo riempire il ruolo del cattivo Diane si affida ad un banale stereotipo. Le due donne, in coppia, vanno addirittura a trovare la vera Diane/Betty nella sua vera casa, trovandola morta, segno di come il suicidio fosse già nella mente di Diane. Tra le due chi si dispiace di più del macabro ritrovamento e ne è visibilmente più scossa è Camilla/Rita, perché giustamente è ciò che Diane vuole far accadere nella sua fantasia.

Quindi, fino a qui: le prime due ore sono una fantasia/sogno di Diane che ridà forma alla realtà per soddisfare ciò che non ha potuto ottenere nella vita reale e per giustificare con fattori esterni la situazione in cui si trova. Gli ultimi quaranta minuti sono la vera vicenda accaduta a Diane.

Da questo riassunto, rimangono fuori alcune sequenze che mal si incastrano nella descrizione. Listandole: sequenza iniziale con balli e premiazione di Diane, uomo creepy nella tavola calda che incontra l’homeless man nel retro, i vecchietti nella limousine che ridono, la sequenza del killer, il club silencio, la famosa scatola blu che si apre e fa da passaggio tra le due sequenze, l’homeless man che mette la scatola in un sacchetto da cui escono i vecchietti, la scena finale dei vecchietti che raggiungono Diane. Queste scene appena listate sono gran parte del motivo per cui credo che Mulholland Drive sia considerato un film complicato, intricato e poco lineare. Cosa c’entra la spiegazione di un sogno di un tizio a caso in una tavola calda? Perché due vecchi sono seduti in una limousine mantenendo un sorriso forzato e inquietante? Perché il killer è la stessa persona sia nel sogno che nella realtà ma ha un diverso colore degli occhi tra le due sequenze? Perché Lynch sta così male di testa? Il fatto è secondo me che la dream sequence non è il sogno di Diane visto dal punto di vista di Diane/Betty, ma è proprio l’esplorazione del mondo creato in sogno da Diane. Alcune volte, come per i vecchietti e per il tizio alla tavola calda, è come sbirciare ogni tanto dietro le quinte dello spettacolo in corso, per vedere cosa fanno i personaggi una volta che escono dal palco; altre volte, come per il regista e il killer, è un vero e proprio spin-off di un personaggio secondario per la storia di Diane/Betty. E tutta questa frammentazione della narrazione è anche giustificata, perché si sta appunto cercando di narrare una realtà onirica, che è illogica per natura.

Ora, per poter arrivare al cuore del senso del film, è necessario parlare della chiave, una delle molteplici chiavi di lettura dell’opera. Già il fatto che una chiave di lettura sia essa stessa una vera e propria chiave è in sé una genialata. Nella dream sequence la chiave blu viene trovata assieme ai soldi nella borsa di Camilla/Rita, mentre nella real sequence viene data dal killer a Betty per segnalare che il suo compito è stato portato a termine. Già da subito si può notare come soldi e chiave siano legati in entrambe le sequenze a Camilla, nella dream sequence perché è Camilla/Rita a portarli in scena dopo aver perso memoria della loro provenienza (perdita di memoria forse metafora della morte di Camilla nella real sequence? Chissà), e nella real sequence per il suo omicidio, dato che i soldi sono le mazzette date da Betty al killer. Il primo compito della chiave blu è quindi stabilire un nesso, un collegamento tra le due vicende, creando un mistero nella prima sequenza che viene risolto solo nella seconda sequenza. Ma il secondo compito, forse più importante, è quello metaforico, e lievemente macabro, di apertura: nella dream sequence la chiave blu permette di aprire la scatola trovata da Diane/Betty al Club Silencio e far terminare la parte onirica dell’opera; nella real sequence la chiave blu è segno che l’omicidio è avvenuto, che tutta la vicenda reale è al culmine della tragedia e che il peso della vita tra visioni e fallimenti è diventato insostenibile per Diane, che suicidandosi fa terminare anche la parte reale del film.

Questa funzione metaforica della chiave nelle due sequenze ci permette di risalire (sempre ad opinione personale di chi scrive) all’origine e al significato del suo complementare nella dream sequence, la scatola. Nel sogno ciò che l’unione della chiave e della scatola permette è aprire la scatola e guardare nel buio più totale del suo interno, facendoci immergere in esso e terminando l’esperienza onirica. Parallelamente, la chiave nella real sequence rappresenta il punto più basso della tragedia di Diane, ovvero l’omicidio da lei commissionato ai danni di chi aveva infranto i suoi sogni di fama e amore. Ottenuta quella chiave, e realizzato quanto la sua vita sia ormai fallimentare, Diane “apre la scatola” per immergersi nell’oblio finale, suicidandosi. La scatola rappresenta l’atto estremo del suicidio, e il suo nero contenuto è l’oblio della morte.

Sotto questa luce si può provare a spiegare la natura dei due ultimi personaggi misteriosi: l’homeless man e i vecchietti, quest’ultimi atti a ricoprire secondo me il ruolo più importante per la comprensione dell’opera e della generale storia di Diane. L’homeless man potrebbe essere interpretato in varia natura: la Morte, il Diavolo, il Male, il subconscio di Diane stessa. Personalmente tendo per quest’ultima, data la natura estremamente personale della vicenda per quanto è ritagliata su Diane. Il personaggio viene introdotto non per diretta interazione con lei ma tramite uno dei personaggi onirici, come a segnalare un livello ancora più sotterraneo, una necessità di scavare ancora più a fondo per venirne a conoscenza. Ma mettetela pure come vi pare, che tanto poco importa. Ciò che importa è che è lui, alla fine, ad avere in mano la scatola blu tanto importante nella dream sequence. La mette in un sacchetto (che potrebbe rappresentare la borsa in cui Diane la ritrova nella dream sequence), e ciò rappresenterebbe il fatto che l’idea del suicidio viene inculcata nella mente di Diane in questa maniera (scatola = suicidio, come detto sopra). D’altronde nella dream sequence questo concetto era già stato introdotto, con Diane/Betty e Camilla/Rita che scoprono il cadavere di Diane. Un’apparente incongruenza tra ciò appena scritto e la teoria delle due sequenze è che la scena dell’homeless man con la scatola non appare nella dream sequence, ma nella real sequence. Come si può far convivere l’homeless man come inconscio di Diane e la seconda sequenza come avvenimento reale? Per rispondere bisogna guardare dove l’homeless man fa la sua apparizione nella real sequence. Diane sta parlando col killer che gli ha appena mostrato la chiave blu, e gli domanda “What does it open?”. Senza considerare la donna che nei fotogrammi finali del film pronuncia la parola “Silencio”, che più che una parola suona meglio come segno di punteggiatura, quella di Diane è l’ultima frase pronunciata nel film. Il killer non risponde e si limita a ridere, mentre con una dissolvenza si passa alla scena dell’homeless man e della scatola, per poi arrivare all’ultima scena dell’arco narrativo di Diane, e ad una delle ultime del film, che in crescente suspense e in pieno stile horror culmina col suo suicidio. E’ la sequenza in cui si accerta il deragliamento della mente di Diane, ed è per questo che la scena dell’homeless man si trova in quella posizione. Nella scena finale Diane è distrutta, la realtà comincia a piegarsi, dal salotto sente tonfi inesistenti alla porta, vede luci accecanti e soprattutto, prima di togliersi la vita, vede avvicinarsi verso di lei i due vecchietti che nelle prime scene della dream sequence l’avevano accolta all’aeroporto. Già, i vecchietti. I veri protagonisti del film! (Su su non indignatevi, è ovvio che io stia scherzando. Forse). Come già detto, li ritengo imprescindibili per capire l’opera intera. Ricollegandoci all’homeless man e al sacchetto in cui la scatola è stata posta, dallo stesso sacchetto spuntano versioni minuscole dei nostri due adorabili e sorridenti vecchietti. Ricompaiono un paio di minuti dopo in casa di Diane, perseguitandola fino all’ultimo istante di vita, sempre sorridenti. Sorridenti come nella scena della limousine, immediatamente dopo aver salutato Diane/Betty all’aeroporto nella dream sequence. Il sorriso inquietante è sempre presente, e lo è perché è solo così che Diane se li ricorda. Da dove? Dalla premiazione del concorso di Jitterbug dance che lei menziona quando parla con la madre del regista nella real sequence. Quel concorso di ballo che per sua stessa ammissione è stata l’inizio della carriera da attrice, che l’ha portata a Los Angeles e che è naufragata nella situazione descritta dalle ultime scene del film. La prima scena vede proprio dei ballerini danzare, con Diane in sovrapposizione sotto i riflettori, in solitaria e assieme a due vecchietti, i nostri due vecchietti. Siccome Diane dice che dopo la vittoria di quel concorso il diventare attrice è stata una naturale conseguenza, ed è da quella decisione che poi sono derivate tutte le insoddisfazioni della sua vita fino a spiralare al suicidio, sono i vecchietti presenti al momento del “peccato originale” che vengono collegati alla morte di Diane.

Praticamente, l’idea di fondo secondo me è questa: la banale scelta di fare l’attrice dopo aver vinto un concorso di danza ha portato una brava ragazza in mezzo ad un tritacarne che non è riuscita a gestire, e il fallimento del proprio talento sommata alla delusione di un amore non corrisposto l’hanno portata al suicidio.

Il quadro sull’opera è quasi completo, manca solamente l’ultima pennellata riguardo il grande escluso fino ad ora: il Club Silencio. Come ampiamente spiegato fino a questo momento la mia visione personale prevede due sequenze separate, e ritengo questa la corretta suddivisione, ma se qualcuno sostenesse che in realtà le sequenze sarebbero tre, contando tutta la parte del Club Silencio come una storia a sé stante, avrei comunque poco da obiettare. Il Club Silencio è l’inizio del tunnel che ci porta dal sogno alla realtà, e come tale tutto ciò che succede al suo interno è sospeso a metà, un po’ onirico se visto come reale, ma comunque realistico se pensato come immaginario. E’ il punto in cui ci viene fatto intendere che tutto quello che stiamo vedendo è finzione, non è reale. Diane/Betty viene letteralmente scossa sul posto, dato che la rivelazione danneggia il mondo patinato e pastellato che stava creando col suo sogno. La stessa recitazione di Watts è diversa tra dream e real sequence, molto teatrale e lineare la prima, rude e quasi dolorosa la seconda, ed è proprio al Club Silencio che la transizione prende forma, a partire dagli scossoni. La prima persona sul palco, l’uomo, è colui che tramite giochi col sonoro introduce l’idea che sia tutto registrato, tutto finto. “It is an illusion” dice lentamente, prima di far comparire gli stessi lampi di luce che si vedranno nella scena finale e scuotendo Diane/Betty guardandola negli occhi. La seconda persona sul palco, la donna, ci immerge in una drammatica canzone in spagnolo, che narra la storia di un amore non più corrisposto e del dolore che ne consegue, senza offrire una soluzione a parte piangere e piangere ancora. La donna cade senza sensi e viene portata via dal palco, e in quel momento Diane/Betty trova la scatola blu all’interno della propria borsa. Considerando il senso metaforico della scatola descritto in precedenza, questo momento racchiude una rivelazione potentissima: Diane si sente al capolinea, non sa più cosa fare, e abbraccia infine l’idea del suicidio.

Questa è la spiegazione che mi sono dato per tutti i dettagli sparsi qua e là nell’opera che sono riuscito a percepire. Non so se sarete d’accordo o meno, ma ciò che spero maggiormente è che tutta questa sbrodolata vi abbia permesso di notare cose che vi erano sfuggite, o crearvi opinioni che non pensavate di avere o di aver necessità di avere, e che invece servono un sacco. Analizzare film fa comprendere meglio il film stesso, i film futuri e la vita stessa, quindi ben vengano i mattonazzi come questo. Poi ovvio, liberi e libere fino alla fine di leggere tre parole e lasciar perdere, live and let live. Personalmente, ho iniziato a scrivere questo pezzo per chiarirmi le idee su un’opera che mi era piaciuta molto. Lo termino ora avendo deciso che “Mulholland Drive” è uno dei miei film preferiti. Il linguaggio cinematografico usato è forse il migliore che io abbia mai visto. Tutto collabora al veicolare azioni ed emozioni: inquadrature e posizionamento degli attori, sceneggiatura, simbolismo, montaggio, sonoro. Ogni elemento è servito molteplici volte, in solitaria o unito ad altri, a creare una delle storie più evocative e meglio raccontate del ventunesimo secolo, e nessuno smetterà mai di ringraziare il Dio Lynch per questa sua creazione.

Non esiste un modo corretto per terminare un discorso su un’opera di tale livello, men che meno un finale evocativo o ad effetto. Quindi è giunto per me il momento di iniziare semplicemente a tacere. Così, dal nulla.

In silenzio.

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