Cosa vuol dire “energia solare fotovoltaica” – cos’è, cosa non è, come funziona

Filippo Guiducci/ Luglio 9, 2023/ Clima, Home/ 0 comments

pannelli energia fotovoltaica
Foto di Anders J su Unsplash

Molto spesso si sente parlare di energia solare, e altrettanto spesso di energia fotovoltaica, di pannelli solari, di pannelli fotovoltaici. Tutti i termini sembrano intercambiabili, ma per capire correttamente i dati e le informazioni da cui veniamo bombardati, è opportuno sapere che non è così e che c’è una ben chiara distinzione. L’articolo partirà da questa distinzione, per poi descrivere tutti i principali aspetti della tecnologia (passati, presenti e futuri). La lettura è consigliata in ordine, ma anche per facilità di consultazione a posteriori la legenda dei temi è la seguente:

Cos’è e cosa non è l’energia fotovoltaica

In generale, l’energia solare è l’energia contenuta nei raggi solari che colpiscono la superficie della Terra. Lo sfruttamento dell’energia solare prende un nome diverso a seconda della tecnologia usata per trasformarla, e in questo articolo parleremo dell’energia “fotovoltaica”, ovvero quella ottenuta dai pannelli fotovoltaici colpiti dai raggi solari. L’altro principale modo di sfruttare l’energia solare per la produzione di energia elettrica è quello dell’energia “a concentrazione solare”: si concentra l’irradiazione solare in una zona molto ristretta e attraversata da acqua, così che aumentandone la temperatura si possa generare vapore e da questo elettricità. Esiste inoltre un altro tipo di sfruttamento dell’energia solare, in questo caso non per trasformarla in energia elettrica ma per trasformarla in energia termica, ed è tramite pannelli “solari termici”: come per la concentrazione solare si scalda dell’acqua contenuta in una zona ristretta, ma l’obiettivo è quello di usare direttamente quell’acqua nel normale consumo casalingo.

Punti chiave: l’energia fotovoltaica è solo uno dei modi di sfruttare l’energia solare, e la si sfrutta per produrre elettricità.

L’energia fotovoltaica nel nostro consumo totale di energia

Per capire bene l’energia fotovoltaica, è bene fare un passo indietro e ricordare che l’essere umano consuma energia in diverse forme, non solo energia elettrica. Si parla in generale di consumo di energia “primaria”, che considera ogni forma di energia utilizzata dall’essere umano. Le uniche fonti primarie escluse dai calcoli ufficiali sono l’apporto calorico di cibo e acqua, che vengono paragonati ad ogni altro bene materiale, ma per il resto il consumo di energia primaria tiene conto di tutta l’energia che noi esseri umani utilizziamo per le cose più disparate. Ci serve energia non solo per accendere la televisione, ma anche per avere acqua calda, per scaldare il cibo ai fornelli, per ricaricare i nostri device e per muoverci in auto.

L’energia fotovoltaica è parte del consumo di energia elettrica, che è a sua volta una parte del consumo di energia primaria: l’IEA stima che nel 2018 l’energia elettrica abbia coperto circa il 20% del fabbisogno mondiale di energia primaria. Questo significa che l’80% dei consumi di energia primaria nel 2018 proveniva quasi completamente da fonti fossili, come gas bruciato nelle caldaie e nei fornelli, o derivati del petrolio usati nei veicoli. Nel 2021 la percentuale era più o meno la stessa. E siccome le fonti rinnovabili possono agire solamente sulla parte di consumo di energia elettrica, è per questo che la tendenza ad elettrificare il più possibile ogni utenza finale è ciò che può aiutarci, in ottica di sostenibilità, a tenere sotto controllo le conseguenze dei nostri consumi energetici primari. Più è possibile usare energia elettrica per i consumi di energia primaria, più è possibile sfruttare i benefici delle energie rinnovabili.

Punti chiave: l’essere umano consuma energia in molte forme; una parte del consumo è sotto forma di energia elettrica, e una parte di questa è energia fotovoltaica.

Come funziona

L’energia fotovoltaica si basa su materiali che, se opportunamente modificati e se colpiti da raggi solari, producono una differenza di potenziale, sfruttabile per ottenere energia elettrica. L’obiettivo di tutta la generazione elettrica è sempre quello di agire su un corpo in quiete attraverso una perturbazione esterna, per poter estrarre energia altrimenti non disponibile. Succede per le fonti fossili (corpo in quite = gas, carbone, petrolio; perturbazione esterna = innesco della combustione), per l’eolico (pala eolica e vento), ed è lo stesso anche per il fotovoltaico: lo stato di quiete sono i materiali modificati (ovvero il pannello), e la perturbazione è il raggio solare che lo colpisce.

Il pannello fotovoltaico è ciò che permette di ricavare energia elettrica dai raggi solari, e per capire il suo funzionamento si deve partire dai materiali chiamati “semiconduttori”, ovvero una via di mezzo tra materiali conduttori e isolanti. La struttura atomica dei conduttori permette un agevole movimento di carica al loro interno (hanno una alta conduttività), mentre quella degli isolanti lo impedisce a tutti i costi (hanno una bassa conduttività). Un semiconduttore è chiamato così perché la sua conduttività è a metà tra i due. Il materiale di gran lunga più usato nell’attuale tecnologia, anche perché è il secondo elemento più presente in assoluto sulla crosta terrestre, è il silicio, che si trova sempre legato a qualche altro elemento chimico ed è utilizzato in larga quantità anche in vetro e ceramiche. Il materiale è quindi già noto da tempo, ma l’avanzamento tecnologico che ci ha permesso di sfruttare il suo stato di quiete è stato la scoperta della possibilità di “drogarlo”: alcuni suoi atomi vengono sostituiti da altri elementi chimici a lui vicini, come boro, gallio, fosforo e arsenico, e questo modifica il numero di elettroni presenti nel pezzo di silicio. Se si sostituiscono alcuni atomi di silicio con atomi dei primi due, che per ogni atomo hanno un elettrone in meno, si passa da una carica neutra a una prevalentemente positiva e si parla di drogaggio “p”; se si sostituiscono alcuni atomi di silicio con atomi degli ultimi due, che per ogni atomo hanno un elettrone in più, si passa da una carica neutra a una prevalentemente negativa e si parla di drogaggio “n”.

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L’ultimo passo tecnologico è stato quello di sovrapporre uno strato “p” ad uno strato “n”, creando così la famosa “giunzione p-n”. Nella zona di contatto gli elettroni in più del pezzo di silicio drogato “n” (carico negativamente) vengono attratti dalla mancanza di elettroni del pezzo di silicio drogato “p” (carico positivamente), e tale attrazione basta a questi elettroni per fare un salto e riempire le lacune più vicine. Mano a mano che tali lacune vengono riempite, l’attrazione da parte del pezzo carico positivamente si affievolisce, e scende così tanto che gli elettroni del pezzo carico negativamente non riescono più a fare il salto per riempire le lacune. Si crea così la “zona di svuotamento”.

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La gestione della zona di svuotamento di questa giunzione sta alla base non solo dei pannelli fotovoltaici attuali, ma anche di tutta l’elettronica che conosciamo oggi, perché è alla base del funzionamento del transistor. La famosissima Silicon Valley, terra dello sviluppo elettronico e tecnologico americano, si chiama così proprio in onore del silicio e delle scoperte che hanno portato a sfruttarne maggiormente le capacità. Ricapitolando: siamo in uno stato in cui due pezzi di silicio, uno con più elettroni e uno con meno elettroni, sono sovrapposti e hanno la zona di contatto che risulta carica neutralmente, e viene quindi chiamata “zona di svuotamento”. Questo è lo stato finale di quiete che ci serve, al quale va aggiunta la perturbazione esterna. In questo caso, la perturbazione è la luce solare, che innesca l’effetto fotoelettrico: gli elettroni a bassa energia (tecnicamente quelli nella “banda di valenza”) vengono colpiti dai fotoni solari e ricevono la loro energia (vengono “eccitati”) in modo tale da portarli ad uno stato ad alta energia (passano nella “banda di conduzione”) e permettergli di muoversi più liberamente all’interno del materiale.

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Questo fenomeno è la base di ogni pannello fotovoltaico, a prescindere dalla tecnologia impiegata. I raggi solari attraverseranno quindi tutto il materiale fino ad arrivare nella zona di svuotamento, e per effetto fotoelettrico i fotoni sbalzeranno via alcuni degli elettroni che erano andati ad occupare le lacune. Gli elettroni sbalzati verranno attirati da lacune più lontane dalla zona di svuotamento, mentre le lacune appena createsi verranno riempite dagli elettroni in eccesso nel pezzo di silicio carico negativamente. Siccome i raggi solari sono composti da moltissimi fotoni, questo processo accadrà in continuazione, ed ecco che viene a generarsi uno spostamento di carica e quindi una differenza di potenziale elettrico da sfruttare.

Questo è l’ultimo pezzo della catena necessaria per sfruttare il fenomeno: una giunzione p-n assieme a circuiteria e altri componenti creano una cella fotovoltaica, e collegando opportunamente più celle solari tra loro e rinchiudendole in una struttura di vetro e metallo si crea un pannello fotovoltaico.

Prima di terminare, va menzionata una differenza nella realizzazione delle giunzioni p-n. Il silicio drogato per ottenere la giunzione può essere di due tipi: monocristallino o policristallino. La differenza sta nella struttura del  silicio che si trova al loro interno: se è un unico strato cristallino è “monocristallino”, se sono più cristalli fusi insieme in un pezzo unico è “policristallino”. Il silicio monocristallino è più efficienti del policristallino di qualche punto percentuale, ma anche più costoso a causa della manifattura più complicata.

Punti chiave: tutti i pannelli fotovoltaici sfruttano la capacità di materiali semiconduttori di liberare elettroni se colpiti da raggi solari. La tecnologia per ora più diffusa impiega il silicio: si mettono in contatto due strati di silicio diversamente modificati (drogati), si ripete l’operazione per più celle, si collegano elettricamente queste celle, le si racchiude in una struttura di vetro e alluminio e le si espone ai raggi solari.

Disponibilità della materia prima

Una fonte energetica è considerata rinnovabile se la velocità di rigenerazione della fonte stessa è più veloce della sua velocità di consumo. La velocità di rigenerazione del carbone è molto più lenta di quella di consumo, quindi il carbone è una fonte non rinnovabile. Al contrario, la quantità di raggi solari sfruttati oggi non influisce sulla quantità di raggi solari sfruttabili domani, quindi l’energia fotovoltaica è rinnovabile. Ciò non significa che l’energia sfruttabile sia sempre disponibile e sia la stessa dappertutto, perché ci sono diversi fattori, fisici, climatici e geografici, che ne limitano l’utilizzo.

La limitazione più ovvia è data dalla presenza o meno di raggi solari: un pannello fotovoltaico ha bisogno di raggi solari per funzionare, quindi è utilizzabile solo nelle ore diurne. Inoltre, in quelle ore la potenza non sarà costante, ma varierà a seconda dell’angolazione dei raggi solari e della presenza di nuvole in cielo. Il motivo di questa variazione è che l’energia dei fotoni dei raggi solari dipende da quanti ostacoli incontrano prima di arrivare sul pannello: se è nuvoloso perderanno energia per gli urti con le molecole che compongono le nuvole, se non arrivano perpendicolari perderanno energia perché devono attraversare più atmosfera urtando così più molecole. Più energia avranno quando arrivano sul pannello, più elettroni scalzeranno via dalla zona di svuotamento, più energia si potrà convertire col pannello fotovoltaico. E’ questo il motivo per cui, durante l’installazione dei pannelli fotovoltaici, sia la loro inclinazione che quella della superficie di installazione (tetto o terreno) sono molto importanti.

Queste limitazioni valgono a prescindere dalla parte del mondo in cui viene utilizzato il pannello, ma la risorsa “raggi solari” non è disponibile in tutto il mondo alla stessa maniera. La radiazione solare (cioè la totalità dell’energia in arrivo dai raggi) cambia a seconda della posizione terrestre, e ciò accade a causa di come la Terra ruota attorno al sole. Per visualizzarlo partiamo da un esempio semplice, che poi complicheremo fino ad arrivare al nostro caso reale. Immaginiamo una grande sfera (il Sole), e attorno una sfera più piccola (la Terra) che le ruota attorno (ciò che definiamo un anno). La rotazione è concentrica, cioè le due sfere rimangono sempre alla stessa distanza. Inoltre, immaginiamo che la sfera piccola ruoti su sé stessa (ciò che definiamo un giorno) con un asse dritto, perpendicolare al piano di rotazione attorno alla sfera grande.

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Come sarebbe la radiazione solare in questo caso? Sarebbe maggiore all’equatore, perché i raggi arriverebbero perpendicolari, e andrebbe a calare salendo e scendendo verso i poli. Non ci sarebbero stagioni, quindi la variazione di quanti raggi arrivano dipenderebbe solo dalla latitudine (quanto si è distante dai poli). Facciamo un cambiamento, e immaginiamo che l’asse di rotazione della sfera piccola si inclini di una ventina di gradi.

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Ora c’è differenza tra quando si è a sinistra e quando a destra della sfera grande, perché per un pezzo della rotazione si è più distanti e per l’altro pezzo della rotazione si è più vicini. Ecco create le stagioni, e quindi dei periodi in cui arrivano più o meno raggi. Ma stiamo ancora considerando una rotazione concentrica, quindi ciò che accade in qualsiasi momento su un punto della sfera piccola verrà ripetuto uguale nel punto opposto della sfera piccola dopo mezza rotazione attorno la sfera grande. Ultimo cambiamento: facciamo che la rotazione della sfera piccola non sia più concentrica con la sfera grande, ma sia spostata e più irregolare, cioè ellittica invece che circolare.

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Ora la sfera piccola non ruota più in maniera equidistante dalla sfera grande, ci sono momenti in cui è più vicina e altri in cui è più lontana. Sommato al cambiamento precedente, ora abbiamo una parte della sfera piccola che è più vicina sia perché il suo asse di rotazione è inclinato sia perché la distanza dalla sfera grande è minore, e quindi riceve più raggi solari. Questo è il risultato, e spiega come mai la radiazione solare sulla Terra abbia la forma che viene mostrata in questa mappa interattiva.Dopo aver visto cosa influisce sulla disponibilità della “materia prima”, si può definire come quantificarla. L’unità di misura usata è principalmente il “wattora per metro quadro” (Wh/m2), ovvero quanta energia hanno i raggi solari che colpiscono un metro quadro di superficie. Per riferimento, 1kWh (ovvero 1000 Wh) di energia è circa l’energia consumata da un asciugacapelli acceso per 30 minuti. In Italia, mediamente l’energia irradiata dal sole per un anno su superficie orizzontale (quindi non inclinata) varia dai 1362 kWh/m2 di Milano ai 1430 kWh/m2 di Ancona fino ai 1569,9 kWh/m2 di Taranto. La differenza non è omogenea salendo e scendendo per l’Italia, ma la tendenza è comunque che la radiazione solare è maggiore al Sud rispetto al Nord, e tale differenza è dovuta alla sfericità e all’inclinazione terrestre menzionate sopra. Il calcolo menzionato sopra, fatto dall’ENEA, considera sia la radiazione diretta (che arriva dal sole senza incontrare ostacoli) che quella diffusa (che arriva dopo aver rimbalzato su qualche superficie), oltre all’impatto di eventuali ostacoli ombreggianti durante il giorno, ma calcola il tutto su superficie orizzontale. I pannelli fotovoltaici sono quasi sempre inclinati, per favorire l’esposizione al sole, quindi va considerato un valore lievemente maggiore. Un sito dedicato dell’ENEA offre però la possibilità di calcolare la radiazione solare inclinata partendo dagli stessi dati e aggiungendo l’angolo di inclinazione.

Punti chiave: l’energia fotovoltaica è rinnovabile, perché sfruttare l’energia solare in arrivo oggi non ne preclude lo sfruttamento domani. La quantità di energia sfruttabile è però finita, e dipende da fattori temporali (giorno o notte), climatici (presenza o assenza di nuvole), geologici (come la Terra ruota attorno al Sole). In Italia, tendenzialmente la quantità di energia solare sfruttabile aumenta spostandosi verso Sud.

Disponibilità del materiale da costruzione

Come visto dal principio di funzionamento di un pannello fotovoltaico, servono dei materiali ben precisi per sfruttare la radiazione solare in questa maniera. A differenza dei raggi solari, quei materiali non sono rinnovabili: ecco quindi che la criticità sulla quantità di materiale disponibile si sposta dalla fonte stessa al veicolo che usiamo per sfruttarla.

Sicuramente il materiale al quale dare più attenzione è il silicio: nel 2020 il 95% della produzione mondiale di celle fotovoltaiche era fatto con silicio policristallino, e anche se il trend sta gradualmente cambiando verso il silicio monocristallino, sempre di silicio si parla. In Italia questo rapporto è un pochino diverso, con il 75% del primo, il 20% del secondo e un 5% di pannelli particolari con tecnologia diversa (qui a pag. 27). Ci sono due problemi principali con questo materiale: il processo per ottenerlo in una forma utilizzabile per la costruzione di pannelli e la catena di approvvigionamento. Per il primo punto, il silicio è un materiale più che abbondante sulla Terra ma che si trova sempre legato ad altro materiale (nello specifico, legato all’ossigeno sotto varie forme). La costruzione di pannelli fotovoltaici richiede silicio cosiddetto “solar grade”, con un certo grado di purezza; il processo per estrarlo è energivoro e costoso e questo, a lungo andare, potrebbe creare un limite di costo sotto il quale l’attuale tecnologia non potrà scendere. Per il secondo punto, l’intero processo di creazione del pannello, dall’estrazione del materiale alla costruzione finale, attualmente è di gran lunga localizzato in Cina, che ha accresciuto la sua influenza nel tempo. Ad esempio, per i volumi mondiali di processamento del silicio è passata da circa il 30% nel 2010 a quasi l’80% nel 2021. Anche per ogni step successivo di produzione, necessario per passare dal materiale grezzo al pannello fotovoltaico, in Cina avviene almeno il 74% della produzione mondiale. Questo accentramento pone uno dei maggiori rischi per la filiera mondiale, in quanto una produzione così largamente focalizzata in un solo punto è molto esposta a pericoli di approvvigionamento. La International Energy Agency (IEA) pone la diversificazione dell’approvvigionamento in cima alle azioni da intraprendere per un corretto sviluppo della tecnologia.

Altri materiali molto presenti sono vetro e alluminio, che compongono rispettivamente il 70% e il 18% circa del peso di un pannello fotovoltaico, ma che sono relativamente facili da realizzare e non sembrano rappresentare un pericolo in termini di disponibilità. Ad esempio uno studio pubblicato su una delle più importanti riviste scientifiche a tema energia ha valutato che, anche se la produzione di pannelli fotovoltaici dovesse arrivare ad essere circa cento volte quella installata nel 2021, sotto certe assunzioni tra cui aumenti di efficienza non ci sarebbero problemi di produzione di vetro (considerando che il materiale ci sarebbe ma servirebbe adeguare gli impianti di produzione) né di alluminio (considerando che è in atto un trend di diminuzione del suo utilizzo).

Per quanto riguarda le terre rare, che nonostante il nome non sono così rare sulla crosta terrestre, esse sono presenti in quantità trascurabile o totalmente assenti nei pannelli fotovoltaici e non rappresentano un rischio di approvvigionamento. Ci sono però elementi particolari come l’argento, il tellurio, il cadmio e l’indio, che potrebbero invece essere problematici da reperire in futuro. Il primo è presente già nei pannelli attuali ma si sta già cercando di ridurne la presenza, gli altri materiali sono presenti nei pannelli in via di sviluppo.

Infine, non presente nei pannelli fotovoltaici ma strettamente collegato ad essi è il litio, fondamentale negli attuali sistemi ad accumulo elettrochimico. I sistemi di accumulo sono un elemento fondamentale per garantire la stabilità di un sistema ad alta penetrazione di energia rinnovabile (e quindi fotovoltaica), e attualmente la tecnologia più diffusa per realizzarli è quella con batterie agli ioni di litio. In futuro più pannelli fotovoltaici porteranno sicuramente a più sistemi di accumulo e quindi ad un maggior utilizzo di litio, anche se è molto difficile stabilire una correlazione quantitativa.

Punti chiave: a differenza della fonte di energia, i materiali necessari per il suo sfruttamento non sono rinnovabili. La loro reperibilità e il loro costo di estrazione sono punti focali di investimento per l’attuale tecnologia e per quella in via di sviluppo. La catena di approvvigionamento è un punto altrettanto critico, dato che l’attuale produzione è largamente concentrata in Cina per tutti i passaggi principali di manifattura.

Emissioni di CO2 della materia prima e dei materiali da costruzione

La fase di produzione di energia tramite pannelli fotovoltaici è, per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica (CO2) e gas serra in generale, totalmente neutra. L’anidride carbonica viene generata principalmente da combustioni di fonti fossili, e dato che nello scambio energetico tra fotoni e celle di silicio questa combustione non avviene, quando si produce energia non c’è rilascio di gas serra.

La fase di produzione dei pannelli fotovoltaici, ovviamente necessaria per avere un pannello fotovoltaico, ha invece un certo impatto di emissioni, dipendente come ogni bene materiale prodotto da un fattore principale: la fonte energetica sfruttata per ottenere l’energia per produrli. In termini relativi, la costruzione di un impianto fotovoltaico ha un impatto maggiore della costruzione di una centrale a carbone. Questo probabilmente accade per tre motivi principali: il calcolo è fatto per kWh prodotto, e dato che una singola centrale a carbone è attiva per più tempo all’anno (tecnicamente si dice che ha un fattore di capacità maggiore) e dura più anni di un impianto fotovoltaico, l’emissione della fase di costruzione si spalma su più kWh prodotti; l’attuale tecnologia dei pannelli fotovoltaici richiede un elevato quantitativo di vetro, che è un materiale molto energivoro e che quindi risente molto del mix energetico ancora largamente fossile; la produzione di pannelli fotovoltaici è molto concentrata in Cina, dove il mix energetico è molto sbilanciato verso le fonti fossili.

Nonostante questo, le emissioni di anidride carbonica di un impianto fotovoltaico si “ripagano” nel primo periodo di vita, da qualche mese fino a un massimo di qualche anno nel peggiore dei casi, ma mediamente attorno ad un anno di vita. Per “lasso di tempo in cui si ripagano”, o per “tempo di offset” delle emissioni generate, si intende il tempo necessario per un impianto fotovoltaico a generare l’energia necessaria per produrlo fisicamente, punto dopo il quale tutta la produzione di energia sarà a emissioni zero. In pratica, si utilizza energia ad alta emissione per costruire, si ha poi una fase iniziale in cui si rigenera l’energia (a zero emissioni) consumata per costruire, e quando si arriva a pari si ha un impianto che genera energia a zero emissioni al posto di quella ad elevate emissioni, facendo quindi risparmiare in termini di emissioni di anidride carbonica.

Punti chiave: per svariati motivi, la fase di costruzione dei pannelli fotovoltaici provoca un certo livello di emissioni di CO2. Al contrario la fase di produzione di energia fotovoltaica non genera alcuna emissione, fatto per il quale la generazione di energia fotovoltaica diventa a zero emissioni nel peggiore dei casi dopo qualche anno.

Impatto ambientale della materia prima e dei materiali da costruzione

L’impatto ambientale di un qualsiasi processo non è ovviamente solo legato alle emissioni di anidride carbonica. L’impatto ambientale riguarda qualsiasi elemento di disturbo nocivo all’ambiente, e può partire dalle emissioni di CO2, che generano troppo effetto serra, fino ad arrivare all’inquinamento chimico delle acque, generando rischi biologici per le forme di vita che ci entrano a contatto. La materia prima usata per l’energia fotovoltaica, ovvero la radiazione solare, non ha impatto ambientale perché è letteralmente l’ambiente stesso, è uno dei motivi che permettono l’esistenza della vita sul nostro pianeta. Ma come detto nei due capitoli precedenti, l’energia fotovoltaica fa cambiare il focus dalla fonte energetica ai materiali usati per sfruttarla, e questi ultimi un certo impatto ambientale ce lo hanno. E’ molto difficile quantificare questo impatto, ma qualitativamente dipende da due fattori principali: l’estrazione dei minerali e il mancato riciclo dei pannelli a fine vita.

I principali minerali presenti nei pannelli fotovoltaici sono rame, argento, alluminio e ovviamente silicio. Il rame è uno dei materiali più importanti nella produzione e trasmissione di energia, perché è la sintesi migliore tra disponibilità, facilità di estrazione e proprietà elettriche. Oltre alle linee aeree e ai cavi dell’energia elettrica, è usato in tutte le centrali termoelettriche e per tutte le fonti rinnovabili, con un impatto maggiore sull’eolico rispetto al fotovoltaico. Il consumo di territorio per le miniere di rame è uno dei maggiori problemi nel campo dell’approvvigionamento dei materiali per tutto il settore energetico, dato il suo consumo e impatto enormi nei confronti degli ecosistemi intorno ai giacimenti. Non si ha particolare evidenza che la necessità di rame per il fotovoltaico sia maggiore rispetto alle fonti fossili, ma dato che la tendenza futura è avere sempre più del primo e sempre meno delle seconde, l’impatto del fotovoltaico sarà presto maggiore. Per l’argento, circa il 10% dell’argento mondiale è usato per i pannelli fotovoltaici, percentuale destinata a crescere molto con l’aumentare dell’utilizzo di energia fotovoltaica in futuro. Sono documentati casi di spostamenti di intere comunità e di contaminazioni dovute all’estrazione dell’argento. Anche il silicio usato per i pannelli fotovoltaici copre circa il 10% del mercato globale, e gli impatti sono principalmente dovuti alle violazioni di diritti umani riportate in Cina, nella quale nel 2021 è stato prodotto il 74,9% del silicio policristallino mondiale. La zona principalmente interessata è quella dello Xinjiang, dove dei ricercatori hanno collegato la produzione di pannelli fotovoltaici, localizzata in quella zona per l’economicità del carbone (e quindi della produzione di energia), allo sfruttamento di lavori forzati. Infine l’alluminio, che è usato marginalmente nei pannelli fotovoltaici ed è facilmente riciclabile, ma che ha già posto problemi per la sua estrazione.  

L’altro fattore di impatto ambientale è la gestione dei pannelli fotovoltaici a fine vita, processo che può generare enormi quantità di rifiuti se i pannelli non vengono smaltiti o riciclati correttamente. Il problema del riciclo inizia ad essere pressante solamente ora che i volumi dei pannelli da smaltire stanno crescendo. La diffusione di massa dei pannelli è iniziata nei tardi anni 2000, con una crescita negli anni quasi esponenziale: nel 2000 non si arrivava a 1GW installato, nel 2005 erano circa 4, nel 2010 erano circa 40, nel 2015 erano più di 200, nel 2021 erano oltre 800. Dato che la vita media di un pannello fotovoltaico è tra i 20 e i 30 anni, sappiamo già che l’andamento dei pannelli da smaltire sarà molto simile a quello dei pannelli inizialmente installati, e in questi anni siamo all’inizio della curva. C’è anche chi ha suggerito che l’incremento dei volumi da smaltire sarà molto più veloce di quello atteso, per via di un elevato tasso di sostituzione dei pannelli già installati: se l’efficienza dovesse migliorare di diversi punti percentuali, un investimento su nuovi pannelli potrebbe diventare economicamente redditizio e far rivendere o smaltire pannelli ancora funzionanti ma meno efficienti.

In ogni caso, i volumi di pannelli da smaltire sono molto bassi fino ad ora, ma nei prossimi anni sappiamo già che esploderanno, portandosi dietro un notevole impatto per tutto l’ecosistema se non gestiti correttamente. Sebbene il 94% di un pannello fotovoltaico è potenzialmente recuperabile, i principali problemi per il riciclo sono già noti e ben riassunti in un report dell’International Energy Agency (IEA): i pannelli non sono stati progettati per essere riciclati; il basso volume di pannelli a fine vita attualmente disponibile non permette di avere economie di scala che facciano abbassare il costo del riciclo; circa il 70-75% del pannello è composto da vetro, che ha un basso valore aggiunto e che a fine vita contiene impurità impattanti sulla possibilità di un suo riutilizzo; alcune sostanze dannose potrebbero contaminare il terreno se lo smaltimento non è gestito correttamente; molti pannelli invece che essere smaltiti vengono venduti su mercati di seconda mano ai cosiddetti “Low-income countries” (parte dell’Africa, del Sudest asiatico e dell’Asia occidentale), dove poi lo smaltimento è fatto secondo standard molto più bassi o inesistenti. Dal punto di vista legislativo, l’Unione Europea prevede già ora, tramite la direttiva Waste Electric and Electronic Equipment (WEEE) del 2012, che i produttori di pannelli debbano farsi carico anche dei costi di smaltimento, anche se la direttiva vale solo per i pannelli introdotti sul mercato dopo il 2012. Negli USA i pannelli da smaltire sono inquadrati a livello federale come generici “rifiuti dannosi” (“Hazardous Waste”), e solo alcuni stati hanno leggi dedicate. In Cina, solo nel 2022 c’è stata una prima presa di coscienza da parte del governo cinese a proposito del tema dello smaltimento. Per Giappone, Australia e altri paesi dell’Asia Pacifica, nessuna regola nazionale è stata attivata. Nonostante il problema del mancato riciclo sia pressante e molti stati debbano ancora muoversi nella giusta direzione, le cause sembrano più di natura economica e di vuoto legislativo più che di limite strettamente tecnico. Inoltre gran parte del problema è legato all’attuale tecnologia, ostacolo sormontabile se in futuro qualche campo di ricerca, ancora non abbastanza maturo, diventasse il filone principale di produzione.

Punti chiave: l’impatto ambientale misura i comportamenti dannosi per l’ambiente (oltre alle emissioni di gas serra già descritte) derivanti dalla generazione di energia. Per l’energia fotovoltaica questo impatto si concentra su estrazione dei materiali da costruzione e sul mancato riciclo dei pannelli fino ad ora. La prima è spesso legata a impatti su comunità locali e diritti umani dei lavoratori, mentre il secondo manca ancora di una economia di scala appropriata.

Efficienza della conversione di energia

L’efficienza di un pannello fotovoltaico è la quantità di energia solare che un pannello può convertire in energia elettrica utilizzabile. Siccome l’energia solare è una energia rinnovabile, e quindi il suo utilizzo in un qualsiasi momento non influenza il suo utilizzo nel futuro, si potrebbe pensare che alla fine l’efficienza non sia un parametro così importante: se la fonte è inesauribile, basta costruire abbastanza pannelli da ottenere l’energia necessaria, senza preoccuparsi di quanta ne serve inizialmente. Il problema è proprio in quel “costruire”, perché una bassa efficienza significa una maggiore richiesta di materiali e di spazio, che hanno un impatto notevole nella sostenibilità dell’intera filiera. Attualmente, la maggior parte dei pannelli fotovoltaici sul mercato ha un’efficienza media che si aggira tra il 15 e il 20%, con alcuni pannelli che possono raggiungere picchi di 22-23%.

La maggior parte dei pannelli fotovoltaici in commercio è realizzato con silicio policristallino, principalmente perché è meno costoso da produrre rispetto al silicio monocristallino, ma i secondi hanno un’efficienza leggermente superiore ai primi e un migliore comportamento al variare della temperatura.

Esistono anche altri tipi di pannelli fotovoltaici con efficienza più alta, ma non sono pronti per la commercializzazione di massa o sono ancora in fase sperimentale. Ad esempio, una cella fotovoltaica a 6 giunzioni ha raggiunto un’efficienza del 47,1%: un valore molto più elevato rispetto ai pannelli solari convenzionali, ma ottenuto in condizioni di laboratorio irreali e utili solo ai fini di ricerca, quindi ancora ampiamente in fase di sviluppo.

Punti chiave: l’attuale efficienza di conversione di un pannello fotovoltaico commerciale varia tra il 15 e il 22-23%. I pannelli a silicio monocristallino hanno qualche punto di efficienza maggiore. In laboratorio si sono raggiunte efficienze più alte ma tali soluzioni non sono ancora commercializzabili.

Costo

A partire da qualsiasi fonte energetica e a voler semplificare, il costo di produzione di energia (come il costo di ogni bene in fondo) si divide in due macroaree: costi fissi e costi variabili. I costi fissi sono i costi indipendenti dalla quantità di energia prodotta, quelli necessari anche solo per iniziare a produrre energia; i costi variabili sono quelli che invece dipendono dalla quantità di energia prodotta. Questi ultimi possono essere calcolati in varia maniera, e uno dei modi più importanti nell’ambito energetico è quello dei costi marginali, ovvero i costi necessari per produrre un kWh di energia in più di quanto fatto fino ad un dato momento (quindi senza considerare quanto fatto prima, come i costi fissi stessi, o l’acquisto della materia prima per produrre energia la settimana scorsa).

Nel caso dell’energia fotovoltaica, i costi fissi sono dovuti alla costruzione dei pannelli, alla loro installazione e al costo di tutti i componenti accessori (inverter, cavi di collegamento) necessari per la operatività dell’impianto; per i costi marginali invece si parla spesso di costo marginale “nullo” o “quasi nullo”, perché la materia prima, ovvero la radiazione solare, è gratuita, e se si hanno i pannelli non costa nulla convertirla in energia elettrica (a differenza delle fonti fossili per esempio, dove il costo variabile è quello del combustibile da acquistare e bruciare per produrre energia).

Siccome la tecnologia dei pannelli fotovoltaici ha sempre lo stesso elemento alla sua base, ovvero la cella fotovoltaica, la differenza di costi fissi per kW installato tra impianti commerciali (quelli piccoli realizzati principalmente per autoconsumo) e cosiddetti impianti utility-scale (quelli realizzati per partecipare al mercato di generazione dell’energia) è principalmente dovuto a comuni logiche di economia di scala. Semplificando molto, è per esempio più sicuro vendere grandi quantità a meno clienti rispetto a piccole quantità a più clienti, e ciò permette un investimento maggiore sulla riduzione dei costi fissi di produzione; è anche necessario meno materiale come vetro e alluminio per realizzare la copertura delle celle fotovoltaiche, perché in un pannello fotovoltaico per grandi impianti i pannelli sono più grandi, quindi sono presenti più celle per pannello e un’unica copertura per quelle celle è più efficiente di tante piccole coperture per pannelli più piccoli; infine, è meno costoso gestire l’installazione e la manutenzione di un solo grande impianto rispetto a molti piccoli impianti distribuiti.

In campo energetico, i costi fissi e i costi variabili si possono grossolanamente riferire al costo per kW installato e al costo per kWh prodotto. Le due unità di misura vengono spesso confuse, quindi per chiarire la differenza definiamo prima una cosa: l’energia è la quantità fisica a disposizione, mentre la potenza è la velocità con la quale un sistema può darci quella quantità fisica. Infatti, si comportano proprio come il rapporto tra spazio e velocità: il rapporto tra quanto spazio percorro e il tempo che impiego per percorrerlo viene definito “velocità”, così come il rapporto tra quanta energia ricevo e il tempo impiegato per riceverla viene definito “potenza”. In Italia il costo di un impianto fotovoltaico per kWp installato (si aggiunge una “p” per indicare i kW di picco, cioè la massima potenza che l’impianto può raggiungere quando i raggi solari arrivano perpendicolari e indisturbati) cambia a seconda dell’operatore, ma grossomodo si aggira tra i 1500 e i 2500 €/kWp per impianti commerciali e tra i 1000 e i 1500 €/kWp per impianti utility. Questi valori sono considerati senza accumulo, che se fosse presente farebbe aumentare i costi fissi ma permetterebbe di gestire meglio l’energia in eccesso.

In rapporto alle altre fonti, il costo del fotovoltaico per kW installato è generalmente inferiore, ma va considerato che un impianto fotovoltaico ha anche un fattore di capacità minore rispetto alle altre fonti, e quindi per produrre la stessa energia ha bisogno di più kW installati. Esemplificativa è la valutazione fatta dal governo americano nel 2022 per calcolare il costo di costruzione di nuova generazione elettrica: il fotovoltaico (con accumulo) avrebbe un costo medio di 1748 $/kW, il carbone più economico 4074 $/kW e il nucleare più economico 7030 $/kW. Il fattore di capacità ha però una tendenza inversa, con valori intorno al 20-30% per il fotovoltaico con accumulo, 50-70% per il carbone e 90-95% per il nucleare. Questo significa che un kW installato di nucleare costa molto più di un kW installato di fotovoltaico, ma nel caso statunitense la natura del fotovoltaico fa sì che servano tre/quattro volte i kW installati di nucleare per avere la stessa energia prodotta col fotovoltaico, rendendo comparabili i costi finali. Questo esempio va considerato solamente come spiegazione del contesto e delle tendenze intorno al costo per kW di ogni fonte, e non come verità assoluta. Molte variabili influenzano il costo di installazione di ogni fonte (incentivi presenti in alcuni stati e non in altri, produzioni interne, disponibilità di materia prima, etc), e inoltre i costi riportati sopra sono “overnight”, ovvero non tengono conto dei costi finanziari del capitale, che impattano molto più alcune fonti (ad esempio il nucleare) che altre (ad esempio il fotovoltaico).

I costi per kWh sono invece molto bassi, o come detto quasi nulli. Non si spendono soldi per acquistare i raggi solari che colpiscono i pannelli, quindi finché il pannello fotovoltaico è funzionante e collegato alla rete, il costo variabile è praticamente nullo. Questo vale anche per l’eolico e circa per il geotermico, dato che lo stesso ragionamento vale per il vento e per il calore sotterraneo, mentre per tutte le fonti non rinnovabili e per fonti rinnovabili come le biomasse il costo variabile è influenzato dall’acquisto della materia per generare vapore e quindi elettricità. Anche per l’idroelettrico vale un ragionamento simile, in cui si può contare come costo variabile il costo di pompaggio dell’acqua in quota.Come visto, comparare energia da fonti diverse risulta sempre molto complicato, a causa delle diverse voci di costo che influenzano ciascuna delle fonti energetiche. Si è quindi creato un parametro, chiamato LCOE (Levelized Cost Of Energy, costo livellato dell’energia), per creare una base il più possibile uguale per tutte le fonti energetiche e valutarle con maggior imparzialità. Le differenze infatti variano dal costo di installazione al tempo di costruzione, al costo del carburante fino alla gestione e alla vita utile degli impianti.

Alcune criticità sono state evidenziate nell’uso del LCOE, come l’alta influenza delle assunzioni dei costi finanziari o dello scarso impatto dei costi ambientali sul valore finale. L’IEA ha cercato parzialmente di porre rimedio con il VALCOE (Value Adjusted LCOE, LCOE aggiustato) che integra anche qualche considerazione sugli impatti secondari nei sistemi, impatti come ad esempio stoccaggi e interconnessioni aggiuntive. La stessa IEA dice che il VALCOE tenta di replicare il più possibile scenari reali, e che come parametro potrà essere migliorato in futuro. Uno dei margini di miglioramento sta nel capire se la valutazione attuale del costo aggiuntivo per il sistema, in termini di stoccaggio e interconnessioni aggiuntive, possa rimanere lo stesso o se diventerebbe più alto in caso di maggior utilizzo di energia fotovoltaica nel mix energetico. Più energia fotovoltaica significa meno energia da altre fonti, quindi più necessità di stoccare energia e più interscambi con altri sistemi elettrici per sopperire all’energia mancante quando il sole non c’è. In ogni caso, da quel calcolo si vede (qui a pag 469) che il VALCOE per kWh del fotovoltaico si aggira tra i 0,06 €/kWh degli Stati Uniti e i 0,04 €/kWh dell’India. Una cosa molto importante da notare è il notevole abbassamento nel tempo del costo per kWh di questa tecnologia: la media mondiale del LCOE è passata da 0,42 $/kWh nel 2010 a 0,05 $/kWh nel 2021, e in Italia il trend è molto simile con un passaggio da 0,38 €/kWh nel 2010 a 0,07 €/kWh circa nel 2019.

Punti chiave: i costi di generazione di energia possono grossolanamente dividersi in costi di installazione e costi di produzione di energia. Per il fotovoltaico i secondi sono quasi nulli; i primi sono bassi a parità di potenza installata, ma tendenzialmente sono comparabili a quelli delle altre fonti di energia se li si confronta a parità di energia prodotta dal singolo impianto. Comparare i costi di fonti di energia diverse è molto difficile, e per questo la IEA ha creato prima il LCOE (Levelized Cost of Energy) e poi il VALCOE (Value Adjusted LCOE).

Consumo di suolo

Il consumo di suolo è la quantità di terreno che viene dedicata ad attività artificiali, sottraendo lo spazio ad una occupazione agricola o naturale. L’energia fotovoltaica è una delle energie col consumo più intensivo da questo punto di vista, essendo una delle tecnologie a più bassa densità energetica per quanto riguarda lo spazio necessario. La tecnologia che al giorno d’oggi permette di utilizzarla si basa infatti sulla superficie esposta al sole, che deve avere una inclinazione ben definita e soprattutto non può permettersi di essere ombreggiata in alcun modo, motivo per cui i pannelli devono anche essere opportunamente distanziati. Inoltre la produzione di energia può avvenire solamente quando il sole è presente, e questo abbassa di molto la quantità di energia prodotta a parità di suolo occupato nei confronti delle altre fonti che non dipendono dal ciclo solare. Il concetto verrà ripreso più avanti quando si descriverà nel dettaglio il “fattore di capacità”.

Il consumo di suolo è calcolabile come il rapporto tra il suolo totale consumato e l’energia totale prodotta, e viene contato anche il suolo dedicato all’estrazione dei materiali. Secondo calcoli di una commissione delle Nazioni Unite, il consumo di suolo medio dell’energia fotovoltaica è di 19m²/MWh, con valori che oscillano tra 12 e 40m²/MWh a seconda della zona di mondo che si sta valutando. Questo valore si riferisce ai pannelli fotovoltaici installati a terra, ed è maggiore del consumo di suolo dell’energia da carbone, considerando anche per quest’ultima il suolo dedicato all’estrazione del materiale. Il consumo di suolo dell’energia fotovoltaica con pannelli installati a tetto è intuitivamente molto minore, attorno ai 3m²/MWh medi, e non è nullo sempre perché viene considerato anche il suolo dedicato all’estrazione del materiale.

Se si cambia il punto di vista e si calcola il rapporto tra il suolo occupato dall’impianto fisico e i kW installati, generalmente si oscilla tra i 4 e gli 11m²/kW a seconda del produttore e della tecnologia usata (come detto prima i pannelli al silicio monocristallino sono più efficienti di quelli al silicio policristallino, e quindi richiedono meno suolo a parità di produttore e di potenza installata). Questo valore è valido per pannelli installati su tetti inclinati, ma in caso di tetto piano o piazzamento a terra il valore sale e può arrivare anche al doppio nel secondo caso, per evitare ombra tra pannelli e per locali tecnici. Nel 2021 in Italia il valore medio di suolo occupato per un impianto con pannelli installati a terra era in media di 18,6m²/kW (qui a pag 29).

Ci sono alcune soluzioni che in Italia possono aiutare a ridurre il consumo di suolo dei pannelli fotovoltaici. Per quanto riguarda lo spazio disponibile sui tetti dei fabbricati già costruiti, ISPRA ha stimato (qui a pag 14) che ci siano tra 750 e 990km² disponibili per l’installazione di pannelli fotovoltaici, sufficienti per ospitare tra 70 e 92GW di pannelli fotovoltaici, ovvero abbastanza per coprire la quota di potenza da fonte rinnovabile prevista dal Piano per la Transizione Ecologica al 2030. Un’altra possibilità è suggerita da uno studio che ha cercato di valutare l’impatto di costruire pannelli fotovoltaici flottanti su riserve di acqua già esistenti. Con determinate assunzioni, ha calcolato che per alcune nazioni la potenzialità di energia generabile è addirittura superiore all’attuale domanda totale. Esistono infine alcuni impianti chiamati agrofotovoltaici, o agrovoltaici, in cui i pannelli fotovoltaici sono montati più in alto, anche a 5 metri da terra, per permettere di coltivare la terra sottostante e non dedicare così il suolo esclusivamente all’impianto fotovoltaico. La scalabilità di questa soluzione e l’impatto sulle varie colture sottostanti è attualmente sotto studio, e le linee guida per definire che caratteristiche servono per definire “agrovoltaico” un impianto fotovoltaico sono state create per la prima volta dal Ministero della Transizione Ecologica nel Luglio del 2022. Tutte queste soluzioni hanno in genere un costo maggiore di installazione dell’impianto, e specialmente le ultime due sono soluzioni funzionanti per ora in casi particolari e ancora da validare su grande scala.

Per capire però quanta superficie servirebbe per soddisfare tutto il fabbisogno energetico italiano, facciamo un piccolo calcolo spannometrico: il consumo di energia in Italia nel 2022 secondo Terna è stato di 316,8TWh. Quella energia è prodotta da una potenza installata di 36,164GW che va a carico nominale 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Dividendo per il fattore di capacità tipico del fotovoltaico nel 2021 (12,5%), ignorando manutenzione e ridondanza di fornitura e considerando di stoccare perfettamente l’energia per seguire il carico richiesto, si ottiene una potenza installata di 289,315GW. A questo valore sottraiamo il fotovoltaico attualmente installato a fine 2022 (circa 25GW) e il valore ottimista di fotovoltaico potenzialmente installabile sui tetti indicato sopra da ISPRA (circa 92GW). Otteniamo così 172,315GW, da installare esclusivamente a terra (abbiamo già usato tutto lo spazio disponibile sui tetti). Considerando il valore indicato sopra per consumo di suolo per installazioni a terra (18,6m2/kW), per installare tale potenza fotovoltaica servirebbero 3205km², l’1,05% della superficie totale italiana. Questo dato è pari a quasi il triplo del consumo totale di suolo italiano (per ogni tipo di costruzione, non solo energia) dal 2006 al 2021, e non si sta considerando la capacità aggiuntiva necessaria per coprire l’aumento dei consumi a venire. Ignorando quindi i problemi tecnici di non programmabilità della fonte energetica, anche dal punto di vista del consumo di suolo è impensabile usare solo l’energia fotovoltaica per soddisfare il nostro fabbisogno energetico. Inoltre, anche considerando l’apporto di altre fonti, questo calcolo aiuta a far capire quanto sia necessaria un’innovazione per aumentare l’efficienza dei pannelli o, come nel caso dell’agrovoltaico menzionato prima, per collocarli in posti ora non considerati.

Punti chiave: il consumo di suolo è la quantità di terreno impiegato per poter fare qualcosa, in questo caso generare energia. Per l’energia fotovoltaica cambia in caso di installazione a terra o a tetto, ma in generale è più alta rispetto alle altre fonti energetiche. Alcune soluzioni per ridurre questo impatto sono l’agrovoltaico (sfruttare lo stesso terreno per agricoltura e installazione di pannelli) e i pannelli flottanti (installare pannelli fotovoltaici galleggianti su grandi bacini idrici).

Densità energetica

Vedi “Consumo di suolo”

Intermittenza

Quando si parla di pannelli fotovoltaici si sente spesso parlare contestualmente di accumulo o stoccaggio di energia. Ѐ una peculiarità della maggior parte delle fonti rinnovabili, non solo del fotovoltaico, e infatti lo stoccaggio non viene mai tirato in ballo per energia prodotta da fonti fossili. Il motivo è che il sole e il vento, a differenza dei vari combustibili e dei bacini idrici, sono intermittenti, cioè la loro disponibilità non è continua nel tempo e non è prevedibile con certezza. Questa è una delle grandi differenze tecniche rispetto al modo tradizionale di sfruttare le fonti energetiche, ed è una delle più difficili da affrontare. Se ci rifacciamo alla descrizione nei primi capitoli di “stato di quiete” e “perturbazione”, fino a poche decine di anni fa tutte le fonti energetiche erano (e sono tutt’ora) lo stato di quiete, alla quale noi applicavamo la perturbazione quando volevamo estrarne energia. La perturbazione è una scintilla per la combustione di fonti fossili, o una collisione tra atomi per l’energia nucleare, o una grande pendenza per l’energia idroelettrica. Per quasi tutte le altre fonti rinnovabili invece, loro sono la perturbazione e siamo noi a dover creare lo stato di quiete che, se disturbato, genera energia. Ѐ un ripensamento totale, e siccome tutto il nostro sistema elettrico era costruito sul poter decidere quando perturbare lo stato di quiete per avere energia, ora servono nuove tecniche e nuove regole per far coesistere le due tipologie di fonti.

Nei dati, il principale impatto di questa intermittenza viene registrato da un parametro chiamato ”capacity factor”, o “fattore di capacità”. Questo parametro è una percentuale, e valuta per quanto tempo l’impianto lavora alla potenza nominale, ovvero alla potenza per cui è stato progettato. Si calcola quindi dividendo l’energia prodotta da un impianto in un certo lasso di tempo per l’energia che avrebbe potuto produrre se fosse sempre andato al massimo della potenza installata. Generalmente il lasso di tempo considerato è un anno. Il fattore di capacità non sarà mai 100%, perché gli impianti si fermano per manutenzioni, per via di come si forma l’ordine di merito per decidere chi produce energia in ogni momento, o per altri motivi congiunturali (ad esempio nel 2022 alcune centrali termoelettriche si sono fermate per mancanza di acqua di raffreddamento a causa della siccità). In ogni caso gli impianti che sfruttano certe fonti sono meno propensi di altri agli stop, e hanno quindi un fattore di capacità più alto.

Attualmente gli impianti fotovoltaici hanno sempre la precedenza per l’utilizzo dell’energia da loro generata nel sistema, ma il loro fattore di capacità è abbastanza basso, essendo dipendente dall’orario della giornata e dalle condizioni metereologiche. Nel 2021 in Italia il fattore di capacità più comune tra gli impianti fotovoltaici è stato del 12,5% circa (qui a pag 38), equivalente a un funzionamento a pieno carico di circa 3 ore al giorno. Il basso fattore di capacità è principalmente causato dalla mancata produzione di energia quando il sole è molto basso o assente e quando è coperto. Valori tipici di altre fonti sono tra il 50 e il 70% per centrali termoelettriche che sfruttano fonti fossili, e intorno al 90% per centrali nucleari.

L’intermittenza dell’energia fotovoltaica, e delle fonti rinnovabili in generale, può essere mitigata accumulando l’energia elettrica quando è generata in surplus rispetto alla necessità del sistema, per poi riutilizzarla quando l’impianto non genera energia.

Punti chiave: attualmente l’intermittenza è uno dei principali limiti allo sfruttamento dell’energia fotovoltaica. Il parametro che ne tiene conto è il fattore di capacità (“capacity factor”), ovvero il rapporto tra energia effettivamente prodotta ed energia potenzialmente producibile dall’impianto. L’unico modo per evitare l’intermittenza è affiancare ai pannelli fotovoltaici un impianto di accumulo di energia.

Maturità della tecnologia e innovazione

Per quanto riguarda la maturità della tecnologia fotovoltaica, lo stato è più o meno maturo a seconda del tipo di tecnologia che si vuol considerare. Prima di chiarire quali tecnologie differenti esistono, è bene ricordare che per “maturità della tecnologia” si intende non solo il livello di efficienza energetica, ma anche la sua capacità di produzione in serie a costi sostenibili, la sua impronta carbonica, il suo consumo di materiali per la produzione, la sua resistenza al tempo e agli agenti atmosferici. Rappresenta in sostanza quanto una tecnologia è pronta per essere commercializzata.

I pannelli solari si dividono in due grandi filoni/generazioni: quelli che si basano su una costruzione della cella fotovoltaica “a fette” (wafer-based) e quelli che si basano su uno strato sottile di materiale depositato (thin-film-based). Solitamente si parla di “generazioni” quando viene introdotta una sostanziale differenza nel funzionamento o nella costruzione di una tecnologia, e per i pannelli solari accade lo stesso. I pannelli convenzionali già citati in precedenza appartengono alla prima generazione, sia in caso di utilizzo di silicio policristallino che monocristallino. Viene chiamato “a fette” perché il silicio viene lavorato in fette di un certo spessore, da cui poi si ottengono le celle fotovoltaiche che compongono i pannelli finali. Questo loro processo fa sì che il pannello sia molto rigido e pesante, quindi nel tempo si sono sviluppati i pannelli della seconda generazione che, tra le altre cose, migliorano questo aspetto.

I pannelli a film sottile (“thin film”) hanno alla loro base lo stesso funzionamento dei pannelli in silicio poli o monocristallino per quanto riguarda lo scambio di energia tra fotone ed elettrone, ma i diversi materiali usati non richiedono più un drogaggio dell’elemento usato. Inoltre lo spessore di tali materiali è da decine a migliaia di volte più piccolo rispetto ai pannelli della prima generazione. La minor quantità di materiale richiesto è il primo vantaggio rispetto ai pannelli di prima generazione, possibile perché le caratteristiche dei materiali utilizzati offrono un maggior scambio di elettroni a parità di superficie esposta al sole, e possono quindi essere utili anche se utilizzati in fogli molto più sottili. Un esempio pratico sono le piccole celle fotovoltaiche usate in varie apparecchiature elettroniche, come le calcolatrici: quelle sono celle a film sottile perché il minor utilizzo di materiale è in quel caso più importante dell’efficienza della conversione di energia. Il secondo vantaggio principale è il miglior coefficiente di temperatura, ovvero un minor degrado dell’efficienza al crescere della temperatura rispetto ai pannelli di prima generazione. Nonostante questo, la fetta di mercato mondiale dei pannelli a film sottile nel 2021 era ancora intorno al 5%, e il motivo è legato ad alcuni principali svantaggi. Il primo è il costo di manifattura, ancora molto alto rispetto ai pannelli di prima generazione. Inoltre, anche l’efficienza è tendenzialmente di qualche punto più bassa, cosa che porta ad un maggior consumo di spazio a parità di potenza installata. Ci sono alcuni casi in cui configurazioni molto particolari di celle a film sottile raggiungono efficienze quasi del 40%, ma l’enorme costo di manifattura le rende utilizzabili solo in campo aerospaziale (alcuni pannelli installati a fine 2022 sulla Stazione Spaziale Internazionale sono pannelli a film sottile a tripla giunzione con un’efficienza dichiarata a temperatura ambiente del 29,5%).

Esistono già altre tecnologie che vengono collocate in una ipotetica “terza generazione”, e altre che potrebbero considerarsi a cavallo tra la seconda e la terza. Tra queste ultime le più importanti sono le celle fotovoltaiche perovskitiche e le celle fotovoltaiche organiche. Le prime prendono il nome dal materiale utilizzato, la perovskite, che è un minerale con una precisa composizione chimica ma che ha poi dato il nome a tutta una serie di materiali con strutture chimiche simili. Come per le celle a film sottile sono sufficienti pochi micrometri di materiale per ottenere un buon assorbimento di energia dei fotoni solari, ma sono a volte considerate più avanti della seconda generazione perché la realizzazione del materiale e la manifattura delle celle è più economica, rendendole più interessanti per il futuro. In laboratorio hanno raggiunto efficienze intorno al 30%, ma i problemi ancora da risolvere sono il degradamento dell’efficienza nel tempo di vita della cella, il raggiungimento di buoni rendimenti con lo scalare della dimensione e l’eliminazione di elementi tossici dal ciclo di vita della cella. A fine 2022 è stato lanciato un progetto europeo per favorire l’industrializzazione di celle solari “tandem”, ovvero con una cella perovskitica posata sopra una tradizionale cella in silicio.

Le celle fotovoltaiche organiche sfruttano invece composti a base di carbonio per assorbire l’energia dei fotoni solari e convertirla in energia elettrica. L’ingegneria molecolare è abbastanza evoluta da permettere di raffinare la grandezza del salto che un elettrone deve fare per esser libero di muoversi nel materiale, e unendo il materiale organico scelto con specifici elettrodi si può creare la solita differenza di potenziale da sfruttare. Come le celle perovskitiche, le celle organiche sono semi-trasparenti e meccanicamente leggere e malleabili, rendendo possibili nuovi utilizzi di celle fotovoltaiche. I principali svantaggi rispetto agli altri tipi di celle sono la bassa efficienza massima raggiunta (intorno al 18%) e l’alto degrado dell’efficienza nel tempo di utilizzo. Mentre il primo potrebbe non essere un problema come già spiegato in precedenza, il secondo è ancora un grande freno nello sviluppo della tecnologia. Le tecnologie alle quali è stato dato il nome di “terza generazione” tentano di modificare più in profondità l’efficienza teorica di una cella fotovoltaica, ed è per questo che si parla di generazione diversa. Esiste infatti un limite massimo per l’efficienza di una singola giunzione, calcolato intorno al 30%. Celle a più giunzioni possono superare quel limite, che rimane però valido per ognuna delle giunzioni. Le celle fotovoltaiche di terza generazione cercano di superare quel limite agendo sullo spettro di lunghezza d’onda della luce assorbita e sulla meccanica di scambio energetico tra elettroni a livello atomico. Queste celle esistono esclusivamente in laboratorio e sono ancora in fase di studio approfondito.

Punti chiave: la prima generazione di pannelli fotovoltaici (“a wafer”) è una tecnologia matura da parecchio tempo, mentre la seconda (“a film sottile”) lo è relativamente. All’orizzonte ci sono pannelli di terza generazione (come quelli con celle organiche) e pannelli a metà tra la seconda e la terza (come quelli con celle perovskitiche), ma nessuno di questi è ancora tecnologicamente maturo.

Impatto visivo

Ogni centrale di produzione di energia elettrica, come ogni altra costruzione umana, porta con sé un impatto visivo ambientale, dovuto alla perturbazione del paesaggio in cui si inserisce la costruzione. Per le centrali termoelettriche non ci sono requisiti specifici sulla morfologia del terreno in cui vengono costruite, eccetto la comodità di costruzione vicino a bacini d’acqua utili per il raffreddamento del vapore. Per gli impianti rinnovabili invece, che siano idroelettrici, eolici o fotovoltaici, si è obbligati a costruirli in presenza di un grande bacino idrico, di zone ventose, di zone assolate e ben esposte al sole. Anche la bassa densità energetica impone un maggior utilizzo di suolo, come già visto, e questo porta ad avere più impianti a parità di potenza installata e quindi più spazio occupato. L’impatto visivo ambientale diventa quindi molto importante per la realizzazione di questi impianti, e in Italia è uno dei principali punti burocratici da affrontare per ogni installazione.

Le azioni di tutela dell’ambiente e del territorio sono suddivise tra vari enti a seconda delle competenze: i principali attori sono il Ministero della Cultura come coordinazione nazionale, i suoi distaccamenti territoriali (le “Soprintendenze”), le Regioni e i Comuni. Le Soprintendenze sono circa una cinquantina, coprono tutto il territorio nazionale e la loro area di competenza geografica varia da alcune province a singole grandi città. Quando si sente parlare di “riduzione dell’iter burocratico” per l’installazione di impianti rinnovabili, spesso ci si riferisce al mettere mano ai documenti che tutti questi attori richiedono singolarmente per procedere con i lavori.

In linea generale gli impianti fotovoltaici installati a tetto non necessitano di particolari richieste, al netto di casi particolari come centri storici in cui sono necessarie più valutazioni. Per installazioni a terra e soprattutto per impianti utility scale (dedicati alla generazione e vendita di energia elettrica), e installazioni in aree con vincolo paesaggistico, la burocrazia è generalmente maggiore ma nel Febbraio 2023 c’è stato un tentativo di semplificazione. A inizio Luglio 2023, la capacità cumulativa degli impianti con burocrazia ancora in elaborazione dallo Stato è di 32,8 GW, e parte di questa burocrazia è relativa ai permessi ambientali rilasciati dai vari enti statali.

Punti chiave: l’impatto visivo è spesso un punto burocratico di grande attenzione per l’installazione di pannelli fotovoltaici, dato che è necessario rispettare molti vincoli di diversi enti pubblici. In Italia ad inizio 2023 c’è stato un tentativo di semplificazione dell’iter.

Sussidi statali

La storia degli impianti fotovoltaici in Italia è molto legata ai sussidi statali. La tecnologia rimase molto di nicchia fino ai primi anni duemila, poi dal 2007 le installazioni più che raddoppiarono ogni anno rispetto all’anno precedente fino al 2011, quando ci fu l’esplosione delle installazioni. Ciò coincise con varie iterazioni del cosiddetto “Conto Energia”, uno schema di incentivazioni economiche dallo stato verso chiunque installasse un impianto fotovoltaico. La natura degli incentivi variò negli anni: il primo “Conto Energia” ebbe un tetto massimo di potenza sovvenzionabile e stabilì a priori il compenso per l’energia elettrica autoconsumata o immessa nella rete elettrica, senza incentivi sui costi d’installazione o su oneri fiscali; il secondo agì anche sul costo d’installazione; molti conti inserirono limiti sovvenzionabili per impianti di natura diversa, incentivi per riqualificazione energetica di edifici, premi sulle tariffe e molto altro. Fu il terzo “Conto Energia” a dare il grande impulso per l’installazione fotovoltaica in Italia, perché dopo essere entrato in vigore nel 2010, in un solo anno la capacità fotovoltaica installata triplicò rispetto a quella dell’anno precedente. In quell’anno si installarono quasi 10GW di impianti fotovoltaici: per capire l’impatto, quelle installazioni sono circa il 40% degli impianti fotovoltaici totali e l’8% di tutti gli impianti di generazione di energia elettrica attualmente disponibili in Italia.

Nel 2013, anno in cui il quinto e ultimo “Conto Energia” ha raggiunto la massima capacità incentivabile e non è stato rinnovato, si arrivò a circa 18 GW totali; da allora le installazioni di impianti di fotovoltaico in Italia hanno rallentato, e il ritmo di installazione è stato pressoché costante fino ad ora, con una capacità fotovoltaica installata nel 2022 di circa 25 GW. Dopo la fine del quinto “Conto Energia” decaddero tutte le singole casistiche di sovvenzione, rimasero delle detrazioni fiscali per acquisto di pannelli e ristrutturazioni e l’energia elettrica da impianti fotovoltaici venne venduta sul mercato apposito (come accade tutt’ora) senza incentivi a valle.

Il finanziamento dei “Conti Energia” e delle varie misure detrattive è in generale stata fatta tramite una componente degli oneri di sistema che tutti i cittadini pagano nella bolletta, la componente A3. Dal 2018 è entrata in vigore una nuova organizzazione degli oneri di sistema, per cui tale componente è stata divisa tra Asos e Arim ma principalmente convogliata nella prima.

Punti chiave: i sussidi statali sono stati fondamentali per lo sviluppo della produzione di energia fotovoltaica, specialmente in Italia. Il finanziamento di tali sussidi è sempre avvenuta tramite una tassa contenuta nelle bollette dei contribuenti.

Quanta se ne usa

Abbiamo accennato in precedenza alla differenza tra energia e potenza. Quando si parla di energia, il primo elemento che solitamente crea confusione è la distinzione tra potenza ed energia, o anche tra kilowatt e kilowattora. Queste ultime sono le unità di misura, come il “metro” per la distanza e il “secondo” per il tempo. Il kilowatt è l’unità di misura della potenza e il kilowattora è l’unità di misura dell’energia. Quel “kilo” ha la stessa funzione che ha nella parola “chilometro”: moltiplicare l’unità di misura per mille. Perché allora non si usa direttamente il “watt” e il “wattora”? Perché sono quantità abbastanza piccole, e a meno di parlare di elettrodomestici non avrebbe senso mantenere quella scala di misura. La stessa cosa vale per “megawattora” (moltiplicare un wattora per un milione) e per “gigawattora” (moltiplicare un wattora per un miliardo). Ma a prescindere dalla scala delle unità di misura, l’energia rimane sempre la grandezza fisica fondamentale. La definizione scolastica di energia è “la capacità di un corpo di compiere un lavoro”. Per “lavoro” si può intendere molte cose: il funzionamento del nostro corpo, lo spostamento di un’automobile, il riscaldamento di un liquido, la movimentazione di una turbina. L’energia può quindi essere vista come una proprietà che può essere trasferita da un corpo ad un altro, e questo trasferimento permette di compiere le azioni più disparate. La potenza invece, come detto in precedenza, può essere vista come un indicatore di quanto velocemente si può ottenere una certa quantità di energia. Il rapporto tra una certa quantità di energia e un certo lasso di tempo necessario per trasferirlo è la potenza del sistema che trasferisce l’energia; se a parità di energia il lasso di tempo dimezza, o se a parità di tempo la quantità di energia raddoppia, la potenza raddoppia. Se si immagina l’energia come la quantità d’acqua all’interno di una bottiglia, la potenza sarà data dalla velocità con la quale l’acqua fuoriesce dal tappo. L’analogia non è completamente esatta ma in questo caso può rendere un’idea fisica del rapporto tra le due grandezze.

Questa introduzione aiuta a chiarire perché, parlando di energia elettrica, ci si riferisce sempre a due grandezze distinte: “potenza installata” e “energia consumata”. Guardando i dati ufficiali di Terna a fine 2021 (la variazione di anno in anno è tale da rendere questi dati comunque rappresentativi), la potenza massima data dalla somma di tutti gli impianti energetici in Italia a fine 2021 era intorno ai 120 GW, di cui circa la metà (58 GW) erano impianti che sfruttano energie rinnovabili. Gli impianti fotovoltaici hanno coperto 22,6 GW, circa un sesto della potenza totale. Secondo il GSE nel 2022 l’Italia ha raggiunto i 25 GW installati (qui a pag 8). L’energia totale prodotta in Italia nel 2021 è stata di 289 TWh, di cui circa un terzo (100 TWh) proveniente da impianti che sfruttano energie rinnovabili. Gli impianti fotovoltaici hanno prodotto 25 TWh, circa un decimo dell’energia totale. Secondo il GSE nel 2022 l’Italia ha raggiunto i 28,1 TWh prodotti (qui a pag 31). Sull’energia totale, va tenuto conto che il fabbisogno elettrico è maggiore dell’energia totale prodotta in Italia (nel 2021 il fabbisogno è stato di 319,9 TWh), e la differenza tra le due quantità è soddisfatta da importazioni di energia dall’estero. Avremmo la possibilità di produrre da soli tutta l’energia necessaria, ma i collegamenti esistenti con i sistemi elettrici delle altre nazioni permettono di acquistare energia da loro quando questa è più conveniente di quella prodotta da noi. La quantità di energia effettivamente consumata è pari al fabbisogno meno le perdite di carico (nel 2021 il consumo è stato di 300,9 TWh).

Punti chiave: in Italia nel 2021 un sesto della potenza totale installata era composta da pannelli fotovoltaici, e un decimo dell’energia totale prodotta era proveniente da pannelli fotovoltaici.

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